La dichiarazione di incostituzionalità delle norme sul divorzio imposto alla coppia coniugata in cui sia avvenuto il cambiamento di sesso da parte di un coniuge, comporta la conservazione degli effetti del vincolo matrimoniale legittimamente contratto, fino a quando il legislatore non consenta di mantenere in vita il rapporto di coppia, giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi.
Con la sentenza n. 8097 del 21 aprile 2015, la Cassazione ha dichiarato illegittima l’annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio apposta a margine dell’atto di matrimonio delle ricorrenti, una coppia composta da una donna e dall’ex marito transessuale, e ne ha disposto la cancellazione.
Con l’ordinanza del 6 giugno 2013, n. 14329 la stessa Cassazione aveva rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale degli art. 2 e 4 della legge n. 164/1982 e dell’art. 31 del D.lgs. n. 150/2011 – secondo cui la sentenza di rettifica di attribuzione di sesso comporta automaticamente lo scioglimento del matrimonio – per contrasto con alcuni principi fondamentali contenuti nella Carta Costituzionale. Nell’ordinanza di rimessione i giudici della Cassazione rilevavano la violazione dell’art. 2 Cost. che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali e i diritti della famiglia come società fondata sul matrimonio, e dell’art. 29 Cost. che tutela la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Anche gli art. 8 e 12 della Convenzione Europea garantiscono il diritto di ogni uomo alla vita privata e familiare che non può essere oggetto d’ingerenza dello Stato se non sia la legge a disporre le limitazioni “giustificate” da motivi di sicurezza nazionale, benessere economico, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute e della morale o di diritti e libertà altrui.
La normativa sarebbe stata incompatibile anche con quanto previsto dall’art. 3 Cost. perché discrimina tra le coppie di coniugi, dal momento che per il matrimonio eterosessuale è sempre previsto l’accertamento giudiziale per giungere allo scioglimento del vincolo, al contrario di quanto avviene nella coppia di coniugi divenuta successivamente omosessuale.
In sintesi, secondo la Cassazione il cosiddetto “divorzio imposto” avrebbe creato un deficit di tutela, e un sacrificio indiscriminato del diritto di compiere scelte relative all’identità personale – tra cui quelle che attengono alla sfera sessuale del soggetto – alla conservazione della preesistente relazione con i caratteri della stabilità e continuità tipiche del vincolo coniugale, e del diritto a non essere ingiustificatamente discriminati rispetto a tutte le altre coppie coniugate.
La Consulta non aveva rilevato l’incompatibilità delle norme con l’art. 29 Cost. in quanto la nozione di matrimonio richiamata dalla Costituzione, è quella che si ricava dal codice civile secondo cui la diversità sessuale dei coniugi – ad oggi – sta alla base del matrimonio ed è un requisito essenziale per la sua legittimità.
Nemmeno era stato ritenuto pertinente il riferimento all’art. 8 (sul diritto al rispetto della vita familiare) e 12 (sul diritto di sposarsi e formare una famiglia) della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo, poiché la Corte europea ha riconosciuto agli Stati quel margine di apprezzamento che lascia al legislatore nazionale la scelta di individuare forme di tutela alternative per le coppie dello stesso sesso, qualora lo stato non riconosca il matrimonio omosessuale.
Le norme , infine, non avrebbero violato l’art. 3 Cost., poiché la particolare fattispecie di scioglimento a causa del cambiamento di sesso di uno dei coniugi rispetto alle altre cause di scioglimento del matrimonio, giustifica una differente disciplina.
La Corte aveva ritenuto esistente la violazione dell’art. 2 Cost. per i principi in esso enunciati. La norma costituzionale garantisce e riconosce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità. Nella nozione di “formazione sociale” deve essere compresa anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendo il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri, nei modi previsti dalla legge (Corte. Cost., sent. n. 138 del 2010).
Il divorzio imposto produce effetti incompatibili con il grado di protezione costituzionale riconosciuto alle unioni omoaffettive, nel senso che determina una soluzione di continuità costituzionalmente non accettabile tra la condizione preesistente e quella successiva alla rettificazione di sesso. Infatti si passerebbe da un unione familiare caratterizzata da un nucleo intangibile di diritti fondamentali e doveri di assistenza morale e materiale che riguarda la vita personale e patrimoniale dei suoi componenti, ad una situazione priva di protezione e garanzie di riferimento.
A seguito della dichiarazione d’incostituzionalità tuttavia il vuoto normativo non è stato colmato con l’auspicata celerità, ma nel frattempo gli atti sono stati restituiti alla Corte di Cassazione per la decisione. Le parti ricorrenti hanno depositato atto di riassunzione con il quale hanno dichiarato di avere interesse alla cancellazione dell’annotazione sul registro degli atti di matrimonio, divenuta illegittima.
Il Procuratore generale faceva rilevare che la regola costituzionalmente corretta secondo la quale l’unione in questione, in quanto protetta dall’art. 2 Cost., deve essere fonte di diritti e doveri regolati da una legge sulle unioni civili, in mancanza di una disciplina legislativa, può essere attuata solo con un adeguamento caso per caso rimesso alla Corte Costituzionale od ai giudici ordinari, ma non con la conservazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso.
E’ qui che la Cassazione compie un passo significativo.
Partendo dall’esame della pronuncia della Consulta, la Corte di Cassazione sostiene che trattasi di una pronuncia che rientra tra quelle definite additive di principio, secondo cui il dispositivo, oltre alla dichiarazione d’incostituzionalità, aggiunge il principio in base alla quale il legislatore dovrà ispirare la futura azione legislativa e il giudice dovrà basare la propria decisione del caso concreto. Infatti la sentenza dava atto dell’impossibilità di emettere una pronuncia manipolativa al fine di sostituire il divorzio automatico con il divorzio su domanda, potere che sarebbe spettato in via esclusiva al legislatore.
Tuttavia, in base all’art. 136 primo comma Cost., la regola dell’automatico scioglimento del matrimonio ha cessato di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione nella Gazzetta Ufficiale.
L’intento del giudice costituzionale era proprio quello di evitare che a seguito dello scioglimento automatico del vincolo coniugale, l’unione si trovasse priva della protezione che per obbligo costituzionale, deve conservare ex art. 2 Cost.
La pronuncia è da ritenersi autoapplicativa e non meramente dichiarativa, con la conseguenza che il giudice a quo è tenuto ad individuare sul piano interpretativo la regola per il caso concreto che renda effettivo il principio imperativo stabilito con la sentenza di accoglimento della Corte Costituzionale.
La Cassazione accoglie il ricorso della coppia bolognese consentendo loro di conservare i diritti e i doveri derivanti dal vincolo matrimoniale legittimamente contratto, fino a quando il legislatore non consenta di mantenere in vita il rapporto di coppia, giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi.
(Altalex, 25 aprile 2015. Nota di Giuseppina Vassallo)